Jericho XVIII
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! शान्ति ॐ

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I n f o

What's her name?
Mi chiamano in tanti modi, ma molto spesso non rispondo. Ho quattordici anni e ne dimostro di più e di meno a singhiozzi. Mi piacciono tante cose, o almeno tento di farmele piacere se non le conosco ancora; ne odio poche. Mi diverto come mi pare, e fondamentalmente mi piace fare quello che mi passa per la testa, per principio.
Inguaribile errante di mondi invisibili, occhio d'ambra e cuore di cristallo. Zanne di pece e artigli d'avorio; ostentare indifferenza è il mio difetto, di pregi ho solo una pelliccia a righe nere.

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  10. 13/3 23:02 Jericho XVIII: Passano anni. L'età è rimasta a quattordici, quindici. Dentro: uguale. Fuori: diciotto. Quasi
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Callìroe voce di pesca

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view post Posted on 15/2/2012, 11:08
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! शान्ति ॐ

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Non so se c'è un motivo per cui non riesco a scrivere più niente, ma se ne devo trovare uno direi l'en-theos, sì; my Nuncle, indubbiamente punterei il dito su questa en-thusìa, e ripassando con più convinzione, condannerei questo en-thusias-mos che quasi non mi fa respirare dal naso – e poi mi lascia prendere aria da un punto talmente alto che non ho più paura di cadere perché anche salire più in su sembrerebbe scendere. Quante altre cose vogliono dire le parole “espirare” ed “espirare” quando scopri che “anima” vuol dire “soffio”. Fsss. Breathe. Non ho più paura di questo corpo. Brava, ripetilo. Dillo ancora. E respira di nuovo. Perché se è vero che tutto è un cerchio, nell'altalena della vita sono in quel breve periodo in cui la corda si rilassa dopo la spinta ed il punto massimo e poi torna giù. Non sono sicura - non sono sicura. Non sono sicura di non essere cresciuta abbastanza da non graffiarmi i piedi adesso che dovrò tornare a sfiorare il suolo, non sono sicura che non mi spezzerò le caviglie quando dovrò atterrare da questo volo pindarico – e/ma non- in cui mi ha accompagnata Garuda – Garuda, Garuda, nome tanto puro, dove sei? Quale cielo, quale terra ti porta? Quale cuore, quale penna e quale inchiostro? E intanto tutto esce, e intanto tutto entra, e tu non sai più chi sei ma nello stile paratattico sintattico paratetico sintetico ti ritrovi e giocando l'eternità è un fanciullo nel suo regno. Datemi i draghi. Ridatemi i mondi. Datemi i fanti, e i re, e i trampoli, e le maschere ed i colori di Venezia, voglio l'acqua della laguna, voglio i riflessi sulle statue di marmo, voglio i gusci, e il muschio, e la polvere di questa civiltà imperitura che morente arranca verso il sole del passato. E quant'è lontana l'acqua quando hai dimenticato di bere. E quant'è vicino un amore quando fai finta di non sapere. Quanto calore nelle mani che quasi pesano nello scaldarsi da sé. Quanta voglia di tornare indietro. Quanta poca forza quella di farlo, e c'è un motivo, Madjorie, c'è un motivo, se quando il sole tramonta sembra che tutte le nuvole fuggano verso est. Animo e riflessi, verbi e congiunzioni, il giogo/gioco del logos, vedi quant'è facile ballare? Basta che schiuda le labbra, basta che tu le veda, basta che tu stia lontano dai miei occhi per tanto poco perché questa pelle ti sembri meno pesante, non più trasparente ma più leggera, e il tuo sguardo si faccia freccia, e interrompa Prajapati e Uśas, per tornare a sapere che siamo tutt'uno, mente e corpore, iuvine e graio, Themi, Methis e Mnemosyne con lo stesso manto e la medesima voce di mamma che chiamano e ti stringono a sé per evitare che tu le costringa in un seno morbido o in una nicchia umida nella quale ripararsi e fuggire tutta la vita. Forse torno ad urlare come facevo da bambina. Forse torno a sanguinare dal cuore, a strapparmi piccoli pezzi d'animo per non lasciare soli quei ricordi interrotti da ogni risveglio, mattina per mattina, da tutta la vita. Perché quando mi alzo e il torpore si allontana sento l'abbraccio di quel mondo tanto freddo pervadente che con languore offeso si scioglie e poi sorride e dice ci vediamo di là. Di là. Ti ricordi, mio piccolo pettirosso da combattimento, quando ti dicevo “buonanotte, ci vediamo di là”? E ti ricordi cosa succedeva dopo? Io ricordo la mia schiena contro la libreria e il contatto caldo dei peluche e le palpebre serrate con le tempie che pulsavano ed un messaggio in testa come un raggio di luce che esplodeva sopra ogni altra cosa – sopra questa terra, sopra i loro pianti, le loro rabbie, l'odio di tutti gli altri – e ti raggiungeva smorzato, delicato, e sottovoce per non farti paura ti raccontava le mie storie ed il mio calore. Me lo ricordo, mio piccolo pettirosso da combattimento. Così come mi ricordo di Avys- ma farei meglio a non dire il suo nome, non è vero? Non lo farò. Ho il mio ritmo. Potrei parlare di Dun-Lae ma lui ha già parole per sé, e sa quanto mi manca. Le sue poesie, la sua voce, i suoi no, la scintilla del suo sorriso nel buio di quella camera, la voce con cui chiamava la gatta, sembra tutto un miraggio lontano, le scorie di un'altra vita vissuta al riparo degli alberi nella foresta delle nostre ribellioni. Quando rifiutavamo di chiamarci uomini, quando poi abbiamo capito di essere gli ultimi rimasti. Quelle parole di fuoco - “io combatto per te, e non importa dove saremo, perché non sono io che ardo – ma il nostro fuoco che scalda entrambi” - colore di fratelli, un qualcosa che avvampa da dentro, da sotto, e ti fa evaporare il pianto dalle guance, e quella nuvoletta opaca di tristezza noi la guardavamo andare via schiena schiena dai tetti dei nostri borghi sepolti dal tempo. Un passato – ero sempre io? Davvero? E ora chi sono? E chi sono le persone che mi circondano? Mi dispiace, vostro onore, anche se vi ringrazio di aver taciuto tutto questo tempo, ma questa sensazione di ricerca non se n'è mai andata. Magari si è saziata per qualche mese, ma è subito tornata a galla nella mia gola di bestia da macello pindarico. E gorgoglia. E a testa bassa io mi rannicchio contro i pilastri del mondo e spingo piano il mio volto dentro altre tempie, dentro altri cuori, e poi mangio, e divoro, e mi dico che ciò che do è ciò che ricevo, ma non è do ut des: è equilibrio. “And in the end /the love you take / is equal to the love you make”, grazie John, grazie Paul, ma la linea d'intercapedine tra Dike e Adikia l'avevo già vista, me la ripasso tutte le mattine sulla palpebra inferiore con una matita di bassa qualità ed un po' di rimmel appiccicoso che ad alcuni non piace. Tuttavia rimane. Tuttavia rimango. Come lo sporco persistente sullo schermo lucido di una realtà olografica. Come il naso adunco di C.S. Lewis. Come la mia voglia di vivere. Patetico? Sì, nel senso di afflizione, nel senso di sofferenza, nel senso di vissuto fino all'ultima linfa.
E adesso tacete sorgenti di diamanti e di letame, chiudano i loro becchi variopinti gli uccelli del paradiso e dell'inferno, perché sto per parlare. Sulla cima dell'Elicona mio mentale e sacro c'è un silenzio di popoli misto di riverenza e dolce attesa. Levo la voce e le muse si inchinano. Ma è solo per tirarmi i capelli. Intrecciano i loro ai mantelli delle mie pecore, belano contro le rocce, contro la terra, hanno occhi verticali ed un cuore fatto di cielo e nuvole, sguardo di luna, labbra di pietra dura. E così capisco che l'uomo non deve avvicinarsi all'erebo per rapire l'ombra delle sue divinità, non deve fuggire dal tartaro, dal talamo di Dite, non dalle sue imperfezioni, non dalla sua fragilità. Così l'arciere incocca la freccia e mira al centro.
Arco di parole, punta di pura verità.
È tesa la corda della conoscenza.
E cantami o diva dei suoi giochi di parole.
 
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