Tuta tuta; khelset-el kaduta.

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Jericho XVIII
view post Posted on 20/10/2013, 23:01 by: Jericho XVIII
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! शान्ति ॐ

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Kan-ya-ma-kan, non ho smesso di scrivere, ho solo ripreso in mano il sussidiario illustrato della mia grammatica interiore e mi sono perduta nella superficialità dei sensi, nell'assorbire dati empirici come una spugna che non gratta più grasso superfluo dalla pelle perché d'inverno col sole lontano anche l'eccessivo è necessario. Conosco le leggi del mondo e te ne farò dono – ha detto, ma prima o poi ogni figlio si ritrova a far da padre al genitore e quando il sacro si fa profano il bacio della buonanotte è una condanna a sogni migliori. Alzeremo la testa quando sarà il nostro momento? Noi che non abbiamo più fiducia nella sacralità dei pasti, che non ci chiamano alle armi ma alla felicità, noi che viviamo nella repubblica delle bambe fondata sul lavoro di molti per il bene di pochi, quando ci chiederanno di diventare chi saremo che scelta avremo il coraggio di fare, quella che desideriamo o quella che il consorzio umano chiede? Salve buonasera vorrei un futuro che non stia né troppo in bilico né troppo fermo, no non voglio condividerlo con nessuno, tenga pure il resto, che me ne faccio della vita ormai. La banca dei giorni spende bonus irrazionali nei respiri trattenuti. E noi non riusciamo a contare proprio ciò che sta finendo, un momento alla volta. E io non ho smesso di scrivere, sono solo diversa, e diversa non vuol dire non scrivere, continui a ripeterti questo, attaccata come un mollusco alla tua corda di virgole tese sugli abissi di un'incapacità che non comprendi più. Cosa hai dato in cambio? La parola? No. No, stai ricominciando a studiare come si parla, l'hai detto tu stessa, di nuovo. Le persone? No, le persone sono come prima, più di prima, realtà contingenti alla tua, che più che toccarti ti sfiorano, che più che soddisfarti ti affamano. E hai paura che qualcuno ti rinfacci che ti atteggi. Cosa risponderesti, dolce piccolo tremore di mani, non lo sai. E oggi è il diciotto ma tu non lo vedi più, fuggi dai numeri, ti nascondi nelle tue fiabe, continui a ripetere “domani”, riconoscendo sempre di più la tua ombra sugli altri che ne frastaglia i contorni e sempre più ti porta a chiederti con chi parli, se con una mònade o un'altra proiezione della tua testa, che dirà sempre qualcosa che puoi capire-non-comprendere come fossero personaggi di un libro che stai scrivendo senza accorgertene. Questa paura di ammettere che ti rivolgi a te stessa quando parli in seconda persona, come se non passassi abbastanza tempo davanti allo specchio, no; ora anche queste zampette di gabbiano sul bianco contro il quale ti scagli devono diventare riflessi, anzi, è il modo migliore di vederti, per riconoscerti nel nero che non è più inchiostro ma un incubo di pixel, di tenebre di significato, di insoddisfazione che non hai il coraggio di cancellare, ostinandoti a unire punti e spazi sperando che nel mosaico incerto del risultato finale rimanga almeno la tua firma, una parvenza del tuo aspetto interno. Che non sai più qual è. Che senti gli altri afferrare per la coda, strappargli una penna, portarsela via, mentre tu fuggi sempre più nuda via da loro via dal tuo mondo via da te. Ma ora basta. Parlati.
Mi parlo.
Mi parlo perché è il momento di cambiare questa paura e farla evolvere. I punti esperienza sono accumulati; scusami, Immanuel, ma i dati empirici oggi mi servono, all'economia del gioco c'è una barra blu da riempire, statistiche da alzare per un mondo in cui chi non skilla è perduto. Il livello è quello giusto. Diciott'anni sono come il mezzogiorno civile: riconosciuti da tutti, solo una stupida convenzione per mettere d'accordo pretenziosi pezzi di carta, quando invece la maturità possiamo diagnosticarcela soltanto da soli, scrutando con attenzione un'ombra che deve sparire sotto la meridiana interna a noi stessi. Li ho? Non lo so, ma non farò a pezzi un trampolino di lancio solo perché è affollato di sconosciuti e morali che mi condannano. Sono cambiata; un tempo l'avrei fatto, adesso preferisco sfruttare il vento, imparare a danzare, invece di spezzarmi o piegarmi. La via di mezzo sta nel mezzo della via di mezzo. E' un paradosso così fragile, una linea talmente sottile che non si canta e non si scrive, si ipotizza soltanto, punto cinque dello studio della funzione esistenziale di una donna con le curve asimmetriche rispetto all'asse x, l'incognita del suo cuore. Ecco, così ci siamo, piccola Shoshik, hai ripreso il tuo ritmo, porti di nuovo tra le dita le bacchette che percuotono il grande tamburo della parola e le fai ballare sulla pista del tuo battito irregolare. La linea, la vedi, Shoshik – dannazione, ci sono ricaduta – insomma, la vedo? E il mio maestro mi ha insegnato che questo ingenuo vagito d'agnello (altro che aurea mediocritas, Orazio caro, l'oro è pesante, solido, lucente, questa linea invece è scura, solida come una lega di diamante a forgiarsi, e fragile come gli anelli lunatici degli elettroni dell'Uranio 230 a spezzarsi) no, non si traccia con la matita dello sfogo, né col pennello della protesta, intrecciato nell'urlo di mille corde vocali, né con la musica né col silenzio, quella linea che è vagito d'agnello nella realtà si incide soltanto con la punta più acuminata del nostro spirito, ed è forse solo allora che la realtà è reale, quando vi lasciamo una firma dopo aver capito che il mondo permeato di noi stessi che credevamo d'aver visto finora è solo un grande, enorme, pauroso, ipocondriaco, terribile kan-ya-ma-kan, c'era e non c'era una volta, in altre parole: una fiaba.
E non so dove sono. La temperatura si abbassa, le molecole si calmano, tutto vibra di meno, tutto si fa freddo, la nonna affamata chiama la memoria e mi promette che diventerò grande là, una volta tornata dal bosco. E io mi stringo forte la mantellina rossa addosso e mi scongiuro di scrivere un altro passo. In lotta con me stessa sì, ma alleata col nemico. Senza il concetto puro di spazio né di tempo, ancora incatenati loro nell'io penso, forse innamorati di forme oltre la mia comprensione che oltre la mia comprensione non sono, se la mia comprensione non ha oltre, non ha tempo, non ha né spazio né tempo. Ma sigillata dentro due occhi una bocca un cuore e dei passi sono costretta a chiedermelo. Dove sono? A casa a preparare il pranzo per la nonna, per strada nel bosco, già nella pancia del lupo, già tra le braccia del cacciatore, ancora nell'utero della mamma nell'utero della nonna nella testa di chi ha scritto la fiaba?
Taccio ma il silenzio non dipende da me, un ululato mi scuote fin dentro. Da dentro. E se il lupo, mi chiede Stephen King, alla fine della fiaba, fosse proprio là, fosse stato là tutto il tempo? Tuta tuta; khelset-el kaduta.
 
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