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Jericho XVIIIPosted: 14/3/2012, 23:06
Oh.
Soltanto piume su questo letto di formaggio.
Soltanto un'eco pacifica su questa lastra spenta.
Un giorno si accende, un giorno muore. Poi cala la notte e io mi faccio piccolina di nuovo. A piccoli passi spingo la mia barchetta di carta dall'Isola ai Giardini di Kensington e fino all'alba rimango a guardare Peter Pan che giace con le fate. Poi “il sogno si interrompe”, la solitudine scompare. L'anta dell'armadio si richiude su Narnia e con le spalle contro i cappotti ruvidi inizio a ridere e non la smetto più. Mi portano via. Mi stringono. Mi prendono la testa tra le mani, mi costringono a fissarli, mi chiedono: “promettimi che”. La bambina sorride da dietro le mie labbra di belva. Oh beluis. E la bambina dice sì. Lyra Linguargentina. Polsi liberati da mille giuramenti, un solo inverno nel cuore, una solita eterna estate che frizza nelle parole. Mi lasciano. E mentre grido le mie risate al cielo, ancora un'altra primavera si sveglia e mi bussa sulla nuca. Chiede il permesso di entrare. Io allargo le braccia. Il calore penetra fino alle mie ossa. Frescura. Un avvertimento. Poi il sogno finisce di nuovo.
Sono in una stanza bianca con le ginocchia al petto e accanto a me lui ha una camicia e i capelli sugli occhi. Sento le palpebre pesanti. Nell'aria aleggia una canzone dei Sigur Ros, oltre al suo odore forte e familiare che mi ricorda casa. Ma casa non esiste più. Era un legame chimico, nulla oltre ad elettroni instabili nella danza frenetica dell'imperfezione. Lui parla e mi racconta di Polemos. Io leggo il mondo sulle sue labbra. E lo bacio a lungo. Lo bacio a lungo dentro la mia testa, finché non mi costringe ad aprire gli occhi e a rendermi conto che lui è lì veramente, che è la realtà per davvero, che...
Dimmi, Har Baje, dimmi se il sogno si spezzerà ancora.
Tornerò ad essere farfalla sul naso storto di Chuang Tsu?
“Ha ha ha” ride la Tigre e mi riporta sul prato verde della Fortezza, con i capelli arricciati tra i fili d'erba e la schiena percorsa da un brivido di liberazione. Non scherzo quando dico che a Samarcanda ho perso il mio pesciolino d'oro. Che nel pianto della bambina lo sento sguazzare in questo meraviglioso cerchio beffardo che è la vita e che non ha più voglia di abbandonarmi. Ho afferrato un filo, papà, e corro in avanti, e inciampo, e cado, e mi lascio trascinare con le ginocchia che sanguinano e le scarpe consumate. Questi sandali alati sporchi di cera e labirinti. La paura del bianco. Il ritorno. L'andata. Il ritorno. Vedo il decollo. È un ricordo chiaro: non sono altro che un pupo in braccio a qualcuno, il mondo è immenso di fronte a me, le montagne si aprono alla mia vista e arrivano più lontano di dove io possa raggiungerle. E quella vertigine mi agita, mi eccita, mi semina in corpo una strana voglia di buttarmi anch'io, mentre osservo con un gridolino i deltaplani lanciarsi nel vuoto e rimanere sospesi sotto i raggi del sole... Il vento come una bandiera senza padrone a far da arbitro a quel gioco folle e alle mie corse sui picchi e sulle discese inseguendo un insetto od un cane. Ho l'impressione di non aver mai smesso quelle fughe e quelle rincorse. Come se stessi scendendo da sempre da un monte che non riesco a guardare perché sta dietro di me. O forse no? Forse questo asteroide è abbastanza piccolo da farmi inseguire me stessa all'infinito finché i miei talloni non calpesteranno il germoglio di un baobab o di una rosa? Piccola, non mi fissare, rispondimi. Senza agitare le piccole mani grassocce, senza dimenticare che sei ancora un uccellino anche tu, che puoi volare ancora, fammi quel sorriso strano e dall'azzurro che ancora custodisci tra le tempie dimmi soltanto dove andare e cosa sono e cosa faccio e perché.
Cosa?
Come dici?
Amaro? Amarezza? Devo ascoltare meglio, bambina?
Oh...
Tremo. Tremo per le ultime foglie sotto i nostri passi affrettati, per le nostre giravolte nei corridoi, per i nostri sguardi subacquei, per i nostri sussurri incompresi, per le occasioni perse, per il colore della sua felicità, per il biondo della sua malinconia, per la profondità della sua allegria, per la sincerità dei suoi sogni e la veridicità delle sue cicatrici, per i posti interrotti, per i momenti particolari, per i ricordi inevocabili, per l'assenza di parole, per l'indigestione di versi, per niente, per tutto, per qualcosa, per qualcuno, per nulla e per nessuno, per il bianco e per il nero, per il moto di agitazione termica, per l'immobilità danzante di quello che vivremo appena sarà giugno, per i nostri viaggi ancora da fare, per il Giappone, per l'Africa nera, per l'occhio del lupo cieco, per il cuore, il sapore del mare, l'odore del sole, la stella di natale, il mio bisogno di sanguinare, la mia voglia di parlare. Ma soprattutto per te, per via di quello che ho sentito urlare.
Ho barato? Forse. Ma questo non è un tranello senza regole, so pagare e barattare, con la mia moneta di rame già in bocca ed una promessa ambigua tra i denti.
La piccola ha risposto solo “amare”.
E io imparato qualcosa a memoria e qualcos'altro che invece non so ripetere. Ed è inutile che me lo si chieda, mr Pooh, you can't spell love but just feel it. Pensaci, ha perfettamente senso, è come chiamare il mare oceano e l'oceano mare senza pretendere di farlo con un sorriso blu. Volevo parlare di ferite ed invece ho raccontato di balsami. Volevo piangere sul fango e invece ho allattato un pulcino in seno.Sed causa dicta est, fermate la clessidra.
U = energia interna. U = universe. U = you.
Ma non in questo nido. Non sotto queste piume, dove U vuol dire semplicemente us.